Traghettare l’essere umano-lavoratore fuori dalla pandemia 

Stefania Papirio e Rosamaria Reale

“Cosa fai per vivere?”

Questa la domanda che ci viene rivolta più spesso. Qualcosa da fare, insomma, che ci qualifichi. Nessuno mai che ci chieda “Chi sei per vivere?”. E per fortuna, poiché la risposta potrebbe deludere perfino noi.

Secondo Jerome Bruner, psicologo e pioniere della psicologia dell’educazione, il linguaggio verbale, prodotto culturale per eccellenza, è strettamente connesso allo sviluppo intellettuale: è attraverso i racconti che si apprende e si arricchisce l’esperienza. La narrazione, che coinvolge sempre la narrazione del sé, è la modalità conoscitiva per antonomasia perché non è solo una mera ricostruzione a posteriori dell’esperienza ma esplicita gli schemi e la grammatica dell’esperienza stessa. Nel complesso gioco della quotidianità, il raccontare diventa il codice delle nostre relazioni e diventa fondamentale per la costruzione del significato, senza dimenticare l’incidenza dei fattori socio-culturali.

Così, in un quotidiano fantastico, a scuola potrebbe essere insegnata, tra le materie, la narrazione dell’essere umano, quell’essere umano che pensa, sente, agisce secondo natura, che è capace di elaborare concetti, di instaurare relazioni, di operare scelte e di risponderne responsabilmente.

Questa macchina complessa, delicata e straordinaria che è l’uomo è completamente calata nel suo contesto di appartenenza e si comporta secondo le regole non scritte della sua tribù. Le regole mutano nel tempo e si adeguano al momento storico, non sono un codice immobile e granitico ma seguono l’evoluzione dell’essere umano e dei suoi bisogni. Lungo queste curve prende forma quella che noi definiamo Società, ovvero un insieme di individui dotati di diversi livelli di autonomia, relazione e organizzazione che, variamente aggregati, interagiscono al fine di perseguire uno o più obiettivi comuni.

E proprio la società ci vuole produttivi, impegnati e sorridenti!

Un lavoro nel lavoro!

Perché è sul terreno di gioco del lavoro che oggi si combatte la battaglia più feroce: quella della confusione della sfera personale con quella produttivo-lavorativa, entrambe alla continua ricerca di riconoscimento e conciliazione.

Abituati come siamo a identificarci con un’attività fuori da noi («io sono un ingegnere», «io sono una biologa», «io sono un’operaia» abbiamo iniziato a slabbrare il confine e rendere sempre meno chiari i campi di intervento. Il verbo “fare” sostituisce il verbo “essere” che non soddisfa la nostra volontà creativa e produttiva ma colma un divario e sposta l’attenzione.

Questo accade soprattutto a fronte di esperienze lavorative sempre più frammentarie ed eterogenee, si indebolisce il rapporto tra lavoro e identità (sociale e professionale) ed emerge la necessità dell’individuo di rafforzare il proprio sé professionale perché lo qualifica più velocemente.

“Non esiste più il posto fisso”, ce lo sentiamo ripetere da anni, come un mantra. Peccato che passando attraverso diverse crisi di governo nostrane, un disastro finanziario mondiale, le incertezze delle banche d’affari, miste a un cambio di moneta e altre amenità, nessuno si sia preoccupato di mettere al riparo l’Uomo comprendendone a pieno il valore di “ingranaggio” di un meccanismo sempre più complesso. Tant’è che lo stesso welfare aziendale si è spostato nel tempo da un primo afflato umanistico – vedi il modello Olivetti che fa rientrare di diritto nel concetto di “responsabilità sociale d’impresa” l’attenzione al benessere dei dipendenti – a un mero sostegno in denaro e benefit. Nessuno spazio quindi per quel lavoro di conciliazione che possa sedare la confusione generata da questa frammentazione.

Perché “essere umani” non è solo una definizione scientifica, ma una categoria dello spirito. E bisogna coltivarla questa umanità altrimenti la si perde con una semplicità che nemmeno te l’aspetti.

Eppure dal rapporto Welfare PMI 2020 emerge una costante crescita rispetto a quella che viene definita conciliazione vita-lavoro: “Nel 2020 il 63,3% delle aziende ha attuato almeno un’iniziativa nell’area della conciliazione tra la vita personale e il lavoro, con azioni che spaziano da misure organizzative (come flessibilità oraria, permessi e lavoro a distanza) a sostegni alla genitorialità (integrazione dei congedi, convenzioni con servizi per l’infanzia) a facilitazioni per il lavoro.”.

Negli ultimi anni, infatti, la stessa Digital Transformation ha contribuito a migliorare gran parte degli aspetti della società umana e l’attuale scenario di pandemia da Covid-19 ne ha dimostrato l’importanza negli ambiti organizzativi e manageriali. Tuttavia, diverse fonti ufficiali, negli ultimi mesi, ci segnalano gli svantaggi dovuti a questo aumento significativo nell’uso degli strumenti digitali a scopo lavorativo: rapporti di lavoro atipici e modalità di telelavoro hanno reso meno netti i confini tra sfera professionale e vita privata e la mancanza di interazioni faccia a faccia, il distanziamento, le restrizioni, l’imprevedibilità e la precarietà hanno provocato un aumento notevole di stress e problemi di salute. Lo confermano le rilevazioni a livello europeo: secondo i dati diffusi dal Parlamento UE, da un’indagine di Eurofound è emerso che il 27% degli intervistati in telelavoro ha dichiarato di aver lavorato nel proprio tempo libero per soddisfare le esigenze lavorative e chi è regolarmente in smart working ha il doppio delle probabilità di lavorare più dell’orario massimo stabilito dalla legge.

“Un insieme di prove in costante aumento mette in evidenza che tra gli effetti di una delimitazione dell’orario di lavoro, dell’equilibrio tra vita professionale e vita privata, di una certa flessibilità nell’organizzazione del tempo lavorativo, nonché di misure attive volte a migliorare il benessere sul lavoro, figurano conseguenze positive sulla salute fisica e mentale dei lavoratori, un miglioramento della sicurezza sul lavoro e un aumento della produttività della manodopera grazie alla diminuzione di stanchezza e stress, livelli più elevati di soddisfazione e motivazione sul lavoro e tassi più bassi di assenteismo.” [1]

La questione del benessere sul lavoro, però, non è affatto nuova e conduce verso un settore di ricerca e di studio umanistico ampio, articolato e ancestrale, già intrapreso dalla filosofia, dalla pedagogia, dall’arte, dalla psicologia sociale e del lavoro, dalla sociologia delle organizzazioni, ossia da tutte quelle discipline umanistiche che studiano l’uomo e la condizione umana, le cosiddette humanities.

E sono gli umanisti con il loro pensiero divergente che possono, a più livelli, intervenire sull’Uomo. Necessario è rafforzare ed equilibrare la vita personale, sebbene esseri in continua evoluzione, applicando quel processo maieutico tipico dell’educazione, conciliando così la sfera personale e quella professionale. Le relazioni, grazie alle quali ogni essere umano esiste, vanno facilitate e rese poi salde, per generare circoli virtuosi e fruttuosi. I rapporti di coppia e quelli genitori-figli hanno bisogno di sostegno attivo nell’esercizio della loro costruzione. Ed è il mondo della filosofia, dell’arte, della letteratura, le humanities insomma, l’area che meglio esprime queste possibilità e facilita l’incessante ricerca di un equilibrio che renda sopportabili gli accadimenti avversi.

L’essere umano (che pensa, sente, agisce e si assume le sue responsabilità) come soggetto-oggetto della sua esistenza viene prima della sua “destinazione”, che sia essa lavorativa, familiare o sociale. L’essere umano, quindi, è il risultato di queste realtà e solo attraverso il potenziamento delle sue caratteristiche personali potrà arrivare ad utilizzare il 100% delle sue capacità professionali.

L’essere umano come attore del suo cambiamento.

Numerosi e recenti studi sottolineano l’efficacia dell’applicazione delle scienze umane al modus aziendale come apertura al pensiero divergente. L’entrata degli umanisti in azienda si allinea ai propositi dell’Europa di creare una nuova leadership consapevole, non solo competente nella materia tecnica, ma allenata anche all’intelligenza emotiva quale sostegno all’innovazione.

Nell’ambito aziendale si parla ormai di formazione in modo assiduo e si tengono distinte quella professionale, gestita dai tecnici, e quella extra-professionale a cui afferiscono le humanities. Questa seconda tipologia vive di un approccio radicalmente diverso e si fa carico, finalmente, dei processi umani sottesi a qualsiasi attività professionale.

Questo nuovo approccio non è un capriccio degli umanisti ma deriva dall’attitudine di questi professionisti alla ricerca e all’applicazione trasversale delle conoscenze.

La grande scoperta del Prof. Giacomo Rizzolatti e del suo team di ricerca, i neuroni specchio, ha aperto la porta al supporto neuroscientifico di quelle materie sempre troppo snobbate come arte, filosofia e letteratura, quelle humanities, appunto, di cui abbiamo già parlato. Numerose ricerche collegano i neuroni specchio alla comprensione dei comportamenti che manifestano un’intenzione non ancora agita ma protesa a risultati futuri, quella sorta di previsione dei futuri comportamenti. Definiamo dunque l’evoluzione del linguaggio come codifica e decodifica del codice verbale e non verbale dell’individuo, quello stesso essere umano che vive con noi il  complesso sistema denominato Società.

Nell’uomo infatti è presente un sistema di espressione delle emozioni più complesso che nelle altre specie, per cui la ricerca si allarga, necessariamente, al campo della conoscenza dei meccanismi sociali.

Ma riportiamo questo discorso neuroscientifico al settore “lavoro”. Ogni azienda è formata da persone, distribuite in reparti, aggregati in team e non è più concepibile ignorare le relazioni non-formali che questi individui hanno fra loro, le loro attitudini, il linguaggio non verbale, le loro storie, le loro emozioni. Un team altro non è che la società in scala. Ed è per questo motivo che bisogna accendere un faro sulle dinamiche umane ed essendo appunto l’azienda una società in scala ridotta ci si può concedere il lusso di ragionare sulle componenti soggettive e personali che, a pioggia, avranno ripercussioni sui ritmi produttivi, sui profitti, sui risultati.

Ogni azienda è chiamata a mettere in campo quanto può per migliorare o adeguare la sua produzione alla contingenza. Ma il presente, il qui e ora, vive di tanti diversi esseri umani e le humanities, che sembrano sempre troppo lontane dalle logiche del denaro, sono ciò che può migliorare e/o adeguare la loro profittabilità.

Pensiero critico, creatività, capacità di argomentazione logica, l’attitudine a leggere la realtà come una fotografia più grande, mai viziata dalla visione soggettiva, sono di pari importanza rispetto ai titoli e ai saperi professionali.

Per molti le materie umanistiche sono impalpabili, eppure tutti usiamo per descrivere delle situazioni frasi che richiamano proprio quel “non so come spiegare” cercando un significato oltre le parole utilizzate (quando mai fossero utilizzate nel modo corretto). Questa che molti individui non sanno verbalizzare è la materia di cui sono fatte le emozioni che, incredibilmente, accomunano tutti gli esseri umani a tutte le latitudini.

La maggior parte delle teorie contemporanee definiscono le emozioni, o ancor più chiaramente le esperienze emotive, come un processo (e non come uno stato) multicomponenziale, cioè strutturato in più componenti in evoluzione.

Il contenitore delle emozioni è la relazione. È nello spazio tra due individui che si sviluppa la relazione. Relazione: Re-azione. In quell’asola si snodano i vissuti e le risposte all’altro che formano il tessuto della nostra vita collettiva.

Se è vero che le emozioni sono le stesse a tutte le latitudini è altrettanto vero che il malessere derivato da questo anno di isolamento, causa Covid-19, accomuna tutti i popoli e ha minato l’essere umano proprio nel suo tratto distintivo: l’essere un animale sociale. La relazione, la capacità di entrare in contatto, è stata azzerata e sostituita da palliativi virtuali che hanno starato ogni possibile strumento.

È quindi questo il momento di intervenire, noi umanisti, in attività strutturate e personalizzate di riconciliazione, riparazione, ridefinizione dell’identità personale, professionale e sociale. Gli umanisti contemporanei possono avvalersi, oltretutto, di importanti studi neuroscientifici a supporto delle enormi capacità di plasticità, adattamento e reazione del nostro cervello agli stimoli ambientali.

Innata nella forma mentis dell’umanista è l’interdisciplinarietà, così consona alla natura delle relazioni moderne, che da più parti e da più punti di vista permette quella visione d’insieme necessaria a comprendere l’uomo così come ci viene restituito dopo questo periodo disastroso.

E proprio riferendoci allo smarrimento di quella tara che invochiamo un cambiamento di direzione nei confronti degli umanisti per ciò che riguarda la formazione extra-professionale. L’efficacia dell’intervento degli umanisti sul luogo di lavoro è supportata dalle intrinseche caratteristiche di questo tipo di professionista: propensione all’osservazione, allo studio e alla ricerca, orientamento a forme di pensiero divergenti, all’immaginazione e a soluzioni creative, attenzione per la cura.

Per dire ad alta voce: “Sono, dunque…ehi, sì, io sono!”

Diritto alla disconnessione, Risoluzione del Parlamento europeo del 21 gennaio 2021 recante raccomandazioni alla Commissione sul diritto alla disconnessione (2019/2181(INL)).

J. Bruner, Children’s Talk: Learning to Use Language, WW Norton, 1983.

L’impresa al centro della comunità, Welfare Index PMI 2020.

M. Cornacchia, Le humanities in azienda, Franco Angeli, Milano, 2018.


[1] Messenger, OIL, studio di valutazione del valore aggiunto europeo dell’unità Valore aggiunto europeo del servizio Ricerca del Parlamento europeo (EPRS) dal titolo “The right to disconnect” (Il diritto alla disconnessione), (PE 642.847, luglio 2020).