di Massimo Maraviglia

Non so se conoscete la storia di Arturo Millepiedi… quello camminava spedito alla ricerca di cibo quando a un certo punto gli salta accanto un grillo e gli domanda: “Arturo dimmi una cosa, ma come fai a coordinare tutte quelle zampette?” Millepiedi si ferma, riflette alla ricerca di una risposta che non trova e resta fermo immobile, lì, incrodato e incapace di fare un altro solo passo. La verità è che siamo tutti un po’ Arturo Millepiedi. Se provate a concentrarvi per un momento sul vostro respiro, potreste accorgervi di una serie di cose alle quali non avevate mai fatto caso e in certi casi potreste addirittura scoprire che non sapete respirare, eppure lo fate. Oppure ancora provate a fare attenzione al modo in cui camminate e vedrete che il vostro passo perderà certamente quella modalità spedita che lo caratterizza in genere. Tutto questo perché accade? Perché in definitiva la gran parte delle nostre azioni quotidiane le svolgiamo in pieno automatismo, senza nessuna consapevolezza.

Respiriamo, camminiamo ma anche pensiamo in maniera automatica attraverso l’applicazione di bias cognitivi, di pregiudizi, di stereotipi insomma continuamente ricorriamo all’impiego di dispositivi che in qualche maniera ci facciano risparmiare risorse sia fisiche che cognitive nelle nostre piccole mansioni quotidiane. Si sa, anche il comportamento umano al grado zero risponde alla più aurea delle regole economiche: massimo rendimento con il minimo sforzo. Nulla di patologico: gli automatismi sono dei dispositivi assolutamente fisiologici e certamente presentano dei vantaggi: fluidificano le azioni di routine, ci consentono di svolgere numerose funzioni risparmiando molte energie sia fisiche che cognitive. Presentano però anche degli svantaggi, primo tra i quali il rischio di attraversare una vita intera in assenza di noi stessi. È in questa assenza che maturano i piccoli errori quotidiani, le omissioni cui neanche badiamo e che stratificandosi, possono prima o poi generare le grandi catastrofi, che probabilmente sono appannaggio della sola divinità, mentre alla specie umana è riconosciuta solo la possibilità di fare piccoli errori, piccole catastrofi che stratificandosi nel tempo condurranno – nel migliore dei casi – alla grande catastrofe. La più parte di questi errori probabilmente si fanno mentre comunichiamo.

Sì, perché comunicare è quella attività che precede, accompagna e segue qualsiasi altra attività che abbia a che vedere con l’esistenza. Dunque uno dei primi svantaggi che può generare una condizione di vita in automatico è il cadere in loop comunicazionali, in modalità comunicative logoranti per tutti gli attori in gioco e privi di esiti accrescitivi. Si parla in questo caso di entropia comunicativa. Comunicare è una capacità fondamentale per tutti ma per i professionisti dell’umano diviene la discriminante chiave per esercitare il proprio lavoro. Professionisti dell’umano son tutti coloro che – a titolo diverso – prendono in cura altri esseri umani. Tali sono dunque i pedagogisti, gli educatori, gli insegnanti ma anche i medici, gli psicologi, gli psicoterapeuti e in generale ogni adulto che è chiamato a svolgere un ruolo di responsabilità rispetto ai più giovani, dunque anche i genitori. Quella di genitore potrebbe essere considerata una categoria professionale sui generis, forse la professione più difficile da esercitare, quella che richiederebbe un corso di studi vero e proprio, se del caso da rendere obbligatorio.

Sebbene la comunicazione sia l’attività cui dedichiamo gran parte della nostra vita se non tutta, di fatto non infrequentemente la conduciamo in maniera sbrigativa, volendo usare un eufemismo, raffazzonata e superficiale, approssimativa, volendo essere più espliciti, distratta. di 1 5 Ecco allora che l’atto comunicativo diviene entropico, perde di ogni efficacia. L’efficacia si misura in rapporto alla capacità che un certo atto comunicativo ha di modificare lo stato delle cose in chiave positiva o quanto meno conformemente alle aspettative degli attori in gioco. Nei casi peggiori di entropia, si possono addirittura creare delle conseguenze negative che non sempre si verificano al momento. Siamo insomma tutti soggetti ad errori di comunicazione molto più di quanto non si possa credere e questi errori sono determinati sostanzialmente o dagli automatismi o dalla distrazione connessa ad automatismi. Contrariamente a quanto potrebbe apparire intuitivamente, comunicare è un’attività estremamente complessa che se condotta in base ad automatismi, può generare addirittura situazioni patologiche, come hanno dimostrato gli studiosi di Paolo Alto in particolare Watzlawick e Bateson.

Senza tema di esagerazione, forse potremmo affermare che quasi ogni disagio esistenziale, quasi ogni dimensione patologica – eccetto quelle con una dichiarata base fisiologica – reca in sé qualcosa che rimanda a un difetto di comunicazione. Così come forse non è esagerato affermare che buona parte della felicità o dell’infelicità umana, dipenda dalla qualità del nostro comunicare. Ma cosa vuol dire comunicare? Compulsiamo la radice etimologica della parola. Comunicare deriverebbe dal latino Communicare, traducibile come mettere in comune, condividere. Scendendo più nel dettaglio, nella parola troviamo il cum che sta a indicare insieme con la parola munis, che vuol dire riconoscente, obbligato ma anche che fa il suo dovere. La parola munis richiama tra l’altro la parola munus che vuol dire allo stesso tempo dono e dovere. Se teniamo insieme queste informazioni di carattere etimologico potremmo dunque definire il comunicare come una relazione tra individui che assumono tra di loro dei compiti e delle responsabilità reciproche e in virtù di tali compiti e di tali responsabilità essi godono di un dono, di una ricompensa. Nell’accezione comune, saper comunicare vuol dire sapersi esprimere, essere capaci di esporre in maniera convincente le proprie idee, essere insomma efficaci. Sicuramente la comunicazione è anche questo ma per un professionista dell’umano comunicare vuol dire anche molte altre cose prima ancora del sapersi esprimere. Per un professionista dell’umano comunicare è probabilmente sinonimo anzitutto di saper ascoltare.

Ascoltare però è un termine che va inteso in una maniera molto ampia, dunque non si tratta soltanto di accogliere le parole degli interlocutori ma anche tutti gli indizi, i segni che da lui possono provenire. Indizi e segni che il più delle volte passano attraverso non il verbale ma il para-verbale e il non-verbale, il contestuale. Ascoltare diventa in questo senso l’esercizio di un’attenzione diffusa che porta alla raccolta di una serie piuttosto diversificata di dati sulla base dei quali operare delle procedure inferenziali e interpolative che sono a tutti gli effetti procedure ermeneutiche. In questo senso il professionista dell’umano, al di là della specifica professione che svolge, deve poter fare affidamento su competenze comunicative tali da renderlo un ermeneuta, chiamato a interpretare una serie di segni, di indizi per individuare la problematica sostanziale che talvolta s’adombra dietro quella apparente. È facilmente comprensibile che per poter intercettare questi indizi è necessario sviluppare la capacità di fare spazio dentro se stessi, mettersi da parte per poter fare spazio all’altro. Quindi comunicare implica anche imparare a nullificarsi, a rinunciare alle proprie risposte preconfezionate, a mettere da parte, per quanto sia possibile, ogni bias cognitivo, ogni dispositivo di sicurezza e di difesa dall’altro, ogni schema interpretativo troppo calcificato.

Probabilmente, una degli aspetti critici dell’esercizio comunicativo nell’ambito delle professioni umane è imparare a sostenere l’incertezza e la frustrazione che si possono provare di fronte a delle problematiche rispetto alle quali ancora non si sia individuata una risposta. D’altro canto l’intervento di un professionista dell’umano non necessariamente deve concludersi con una soluzione del problema, talvolta la reimpostazione dello stesso è già una soluzione. Può capitare anche con una certa frequenza che più che di una soluzione, gli interlocutori abbiano bisogno di essere ascoltati. Un ascolto attento attivo può talvolta fare scorgere nelle parole del nostro interlocutore una soluzione che lui già ha ma della quale non ne è ancora consapevole. La modalità maieutica è tra l’altro caratteristica di alcune professioni dell’umano. Insomma la difficoltà sta anche nel tenere a bada la naturale tensione verso l’interventismo che caratterizza certi comportamenti professionali soprattutto quando si è chiamati ad offrire delle soluzioni, laddove talvolta la cosa migliore da fare è il nulla, ma farlo nel migliore dei modi. Ascoltare e osservare costituiscono già di per sé un’importante modalità d’intervento. La capacità di ascolto vuol dire anche riconoscere il kairos, il tempo appropriato nel quale è necessario tacere o dire anche una sola parola, nella piena onestà verso se stessi e verso gli altri, quella onestà in virtù della quale si può dichiarare serenamente il fatto di non avere al momento una risposta al quesito proposto.

Comunicare, per un professionista dell’umano, probabilmente vuol dire anche sapere intercettare in tempi ragionevoli la grammatica e la sintassi del proprio ospite e farla propria, entrare in sintonia con le modalità rappresentazionali del proprio interlocutore. Bandler e Grinder, gli psicologi inventori della PNL, definiscono questa strategia comunicativa la tecnica del ricalco. Nel suo lavoro di ipnotista lo psicoterapeuta Milton Erikson arrivava persino a imitare il linguaggio non verbale dei suoi pazienti in maniera tale da metterli completamente a proprio agio. La psicologia sperimentale ha dimostrando da tempo la predisposizione degli esseri umani ad essere attratti e subire l’influenza delle cose che appaiono simili o familiari a se stessi. Questo apprendimento tecnico che porta alla capacità di acquisire e fare propria la lingua del proprio interlocutore, ricorda molto l’addestramento di un attore quando è chiamato a interpretare un personaggio, operazione che richiede l’abbandono delle proprie specificità personali per assumere quelle di un’altra entità, fino a identificarsi con essa. Prima ancora che efficace una comunicazione dovrebbe essere felice. Il termine efficace rimanda all’idea del raggiungimento di un fine, di un obiettivo che di norma è centrato sull’emittente e non sul destinatario. Comunicazione efficace si traduce spesso in comunicazione persuasiva. La comunicazione viene considerata tale nel momento in cui questo obiettivo viene raggiunto. In altri mondi migliori, ogni atto comunicativo – se è un atto comunicativo a tutti gli effetti – dovrebbe essere un momento di negoziazione all’interno del quale trovano spazio istanze diverse che in qualche punto dovranno incontrarsi, dunque una comunicazione che sia tale a tutti gli effetti dovrebbe essere capace di soddisfare le istanze di tutti gli interlocutori in gioco.

Questo vale ancor di più per le relazioni in cui uno dei soggetti svolge un ruolo di maggiore responsabilità, in termini di cura, rispetto all’altro. Il termine felice etimologicamente rimanda alla parola latina felix, ovvero fertile. La fertilità è una condizione che si verifica allorquando due o più elementi entrano in relazione tra di loro e producono, in virtù della forza generata da questa relazione, un valore aggiunto che va oltre la semplice somma del loro valore iniziale. Dunque una comunicazione diventa felice quando attualizza le potenzialità, direi i semi dei soggetti in gioco. Ovviamente di tutti i soggetti in gioco. Ecco perché credo sia preferibile utilizzare il termine felice in luogo di 3 5 di efficace, perché l’efficacia è un’idea che rimanda all’idea di un obiettivo, all’ottenimento di uno scopo che in genere riguarda il solo emittente, dunque non è negoziato. Il teatro come allenamento a una comunicazione felice Perché il teatro può essere lo strumento pedagogico ideale per allenare a una comunicazione felice? Intanto quando pensiamo al teatro non dobbiamo pensare all’aspetto performativo ma al suo aspetto procedurale: è quello che interessa sul piano pedagogico. Il teatro prima di tutto implica una serie di esercizi che mirano allo smantellamento di tutti gli automatismi sia fisici che psicologici che tratteggiano il nostro quotidiano. Abbiamo visto che una cattiva comunicazione nasce anche dagli automatismi. Interrompere il flusso degli automatismi vuol dire mettersi nella condizione di ricominciare a prestare attenzione effettiva alle cose, quella attenzione che rende produttiva e presente e vitale la nostra esistenza e che si concretizza in un vero comunicare.

Nell’alveo di uno studio dedicato a all’acquisizione di una buona comunicazione, assume un ruolo centrale il concetto di dialogo, dispositivo/chiave del linguaggio teatrale. Dialogare è un processo molto più complesso di quello che non possa apparire di primo acchito. Molto spesso pensiamo di dialogare e invece stiamo monologando con altri monologanti. Il dialogo reale è quello che si istituisce all’interno di soggetti svuotati di sé stessi, capaci di accogliere le parole e i non detti dell’altro. In un dialogo sostanziale le risposte non sono mai preconfezionate ma si costruiscono esattamente nel qui ed ora in cui sono calati gli interlocutori in gioco. Allenamento al dialogo rappresenta un momento centrale anche nei master che OIDA propone a proposito della comunicazione e che conduco personalmente. La metodologia di lavoro proposta si basa su esercitazioni di scrittura dialogica fondate sull’idea che le battute presenti all’interno di un dialogo possano in qualche maniera essere categorizzate secondo tipologie specifiche, ciascuna delle quali corrispondente a una strategia comunicativa per cui, valutando le categorie a cui sono ascrivibili le battute, è possibile anche individuare che tipo di strategia l’interlocutore pone in gioco, spesso inconsapevolmente, mosso dai principi motori di ogni agire umano, che sono la paura e il desiderio, in tutte le loro possibili infinite declinazioni. Così come è possibile, analizzando i dialoghi prodotti, rilevare i più comuni errori di comunicazione in cui quotidianamente cadiamo. La dimensione simulata è quella attraverso cui alleniamo la capacità di lettura, ermeneutica appunto, che applicheremo poi nelle situazioni reali. In sintesi: quali sono le competenze che la prassi teatrale può fornire sul piano delle competenze comunicative?

Vediamone alcune (non necessariamente nell’ordine). Primo: la capacità di distinguere tra attore e personaggio, che nella vita reale corrisponde alla distinzione che corre tra la persona e il ruolo o i ruoli che interpreta. Probabilmente l’errore più comune che si manifesta sul piano della pragmatica comunicazionale quotidiana è proprio quello di confondere il ruolo con la persona, ovvero confondere la ben nota maschera pirandelliana con la natura essenziale della persona. Si tratta di un eccesso d’immedesimazione che già Diderot, qualche secolo prima, nel suo Paradosso sull’attore, aveva indicato come uno dei peggiori errori che un attore possa compiere. Secondo: la possibilità di esercitare il senso del gioco e dell’umorismo, come componenti fondamentali per controbilanciare la sostanziale gravità dell’essere nel mondo. Terzo: la capacità di impiegare uno sguardo ermeneutico interpretativo sulle dinamiche relazionali, così come il professionista dell’umano fa allorquando interagisce col di 4 5 suo ospite. Quarto: la capacità di esercitare l’attenzione diffusa, ovvero raccogliere euristicamente un insieme di dati e di sollecitazione che, posti in relazione tra loro, offrono una visione più completa e quindi veritiera dell’oggetto osservato. Quinto: la facoltà di leggere le sottotestualità, vale a dire tutto ciò che di taciuto, talvolta perché indicibile, scorre al di sotto delle parole. Sesto: imparare a riconoscere il kairos, ovvero il tempo dell’opportunità, dell’hic et nunc per potere agire oppure solo tacere e osservare. Settimo: l’allenamento a governare l’imprevisto e l’incertezza. Paradossalmente, si crede che tutto ciò che accade in teatro corrisponda a una dinamica già prestabilita basata su un copione con le sue battute, le sue sequenze ampiamente provate collaudate prima di andare in scena.

Questo in parte è sicuramente vero ma è vero anche che in teatro così come nella vita può accadere – e più frequentemente di quanto non si creda – di trovarsi di fronte a delle situazioni impreviste. L’imprevisto è sempre un’opportunità che si è in grado di cogliere e di far fiorire solo quando si è allenati all’imprevisto. Buona parte del lavoro di un professionista dell’umano è probabilmente soggetta a questa permanente incertezza, perché ogni volta che ci relazioniamo con altri umani, per quanto si possa avere anche una grande esperienza sul piano delle relazioni, ci troveremo di fronte a una storia nuova tutta da scrivere con nuove battute e nuovi intrecci che per quanto possano apparire simili ad altre storie, altri copioni, presentano quei tratti di peculiarità che le rendono uniche e irripetibili. Cercare somiglianze nelle differenze e differenze nelle somiglianze, anche questo è un esercizio tipico di una comunicazione felice.

Napoli, 6 novembre 2023

(Estratto dell’intervento per la tavola rotonda L’educazione consapevole organizzato dal Centro OIDA Napoli,

4 novembre 2023)